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#30annidiNiem: «Qui ho imparato l’ottimismo»

Padre Mario Zappa, non pensava minimamente, una ventina di anni fa, concluso il suo compito nella casa generalizia della congregazione a Roma di partire per una nuova missione… in Africa.

Mi trovo qui in Africa perché negli anni Novanta il superiore generale dell’epoca, non potendo a causa di un problema di salute venire lui stesso a compiere la consueta visita canonica, mi ha mandato al suo posto.
Ho fatto la visita alla comunità – allora c’era solo una comunità a Niem – e sono ritornato al mio lavoro a Roma.
Ma quando ho terminato il mio compito nel Consiglio generale mi hanno chiesto se potevo venire qui in Africa, in aiuto alla comunità. Il motivo per cui ho aderito all’invito è che in quel momento diversi religiosi della Provincia italiana avevano cominciato a prendere le distanze dai loro impegni sacerdotali; io avevo seguito quei giovani seminaristi a Monteporzio negli anni di formazione e per me era venuto il momento non più di fare discorsi ma di dare una testimonianza a quei giovani. Come a dire: ciascuno di noi ha assunto degli impegni ben determinati, non si può abbandonarli così facilmente. E, per evitare di dire soltanto parole, sono venuto qui in aiuto alla comunità di Niem.
Sono qui da 22 anni. La difficoltà maggiore è stata l’adattamento fisico del mio corpo al nuovo ambiente di vita.
Ho dovuto lavorare molto su questo versante: ogni anno cadevo nella malaria e questo limite intralciava il lavoro, perché nei momenti più impensati, soprattutto dopo qualche viaggio per andare nei villaggi, dopo qualche fatica in più, mi capitava una crisi che mi buttava a terra per lungo tempo. Solo grazie a una ricerca molto precisa della dottoressa Ione, che è qui da oltre 40 anni, ho trovato la terapia giusta, tanto che per 7 o 8 anni non ho più auto ricadute.
All’inizio il mio compito, il primo compito, era apprendere la lingua. E infatti nei primi mesi, a partire dal settembre 1994, ho cominciato a seguire dei corsi di sango per poter comunicare con la gente. Nel frattempo mi è stato chiesto di dare una mano anche nella formazione dei giovani nei seminari di La Yolé gestito dai carmelitani e nel seminario maggiore di filosofia e di teologia di Saint Laurent, tenuto dai cappuccini. I primi anni scendevo il lunedì da Niem a Bouar, rimanevo o presso i carmelitani o presso i cappuccini e facevo dei corsi di filosofia.
Poi il superiore provinciale di allora, padre Piero Trameri, ha domandato a padre Beniamino e a me di prendere in carico la parrocchia di Madonna di Fatima a Bouar; così nel 1996 ci siamo stabiliti nella nuova residenza, padre Gusmeroli come parroco e io come aiutante. Così dal 1996 al 2009, pur continuando il lavoro di formazione nei due seminari, ho svolto attività pastorale nell’aiuto alla parrocchia con una ventina di villaggi. In ambedue gli impegni ho cercato di portare avanti presso i giovani e con la gente un cammino di apertura mentale.
Apertura prima di tutto per me, che mi sono liberato da certi schemi, da certi obiettivi che mi proponevo nel lavoro in Italia. Venendo in Centrafrica, a contatto con questa gente, mi sono accorto anzitutto che loro stessi potevano darmi una visione nuova, uno spirito più ottimista e non più chiuso nei problemi da affrontare. Mi diceva un volontario che è venuto qui diverse volte, Ugo: «Mi meraviglio di quello che questa gente è capace di fare, con tutti i limiti che hanno nella loro situazione pratica; superano difficoltà che non so se sarei capace di affrontare, mantenendo come loro uno spirito positivo, costruttivo e fiducioso». In effetti sono capaci di superare forti difficoltà per portare avanti il loro compito, la loro famiglia.
Piano piano, stando con i giovani e con la gente, ho migliorato il mio rapporto con loro, ho superato un certo pessimismo nel lavoro e pastorale e formativo. Vedevo come le persone, pur con problemi molto pesanti, sapevano mantenere il sorriso e un atteggiamento positivo nelle difficoltà, e ho imparato da loro. Da parte mia cercavo di donare tutto quanto avevo accumulato come conoscenza, come esperienza nei miei impegni precedenti in Italia. E così l’impatto con una cultura, con un popolo differente, più che essere un limite o un ostacolo, è diventato una prospettiva e una chance positiva. Mi sono accorto che cambiando il mio atteggiamento iniziale comunicavo di più, capivo che erano contenti che fossi in mezzo a loro e che partecipassi quanto avevo appreso negli anni passati in Italia.
Ora qui sono con fratel Angelo Sala, in una comunità di salute per seguire da vicino gli ammalati di Aids. E posso dire che grazie alla perseveranza dei padri e dei fratelli (si sono aggiunti a noi i betharramiti della Costa d’Avorio) l’impegno dà dei risultati. A livello formativo abbiamo dato inizio all’accompagnamento di giovani per una possibile scelta religiosa; e anche a questo livello, pur con tutti i limiti esistenti – limiti per esempio di una formazione intellettuale molto debole, dipendente non solo da loro ma dalla struttura della scuola in questo Paese – ci sono stati forti progressi. Alcuni giovani centrafricani hanno continuato la formazione in Costa d’Avorio e hanno ottenuto risultati molto buoni.

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