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#30annidiNiem: «Un seme per cambiare il mondo»

Oggi diamo voce a padre Beniamino Gusmeroli, parroco nella missione di “Nostra Signora di Fatima”, nella città di Bouar.

Sono nella Repubblica Centrafricana da 24 anni. Quattro li ho passati a Niem e 20 qui nella parrocchia di Nostra Signora di Fatima a Bouar. Sono venuto che non avevo ancora trent’anni, quindi con tutti gli ideali che l’età propone, con un’apertura alla vita religiosa, da una parte, e anche a una donazione alla popolazione dell’Africa, dalla quale sono sempre stato affascinato.
Ma in 25 anni sono cambiate tante cose, dentro di me, nelle mie aspettative e nei miei progetti.
Le aspettative: all’inizio erano quelle di cambiare il mondo, e c’è ancora adesso l’idea di fare la mia parte per cambiare il mondo; naturalmente sono diversi i metodi, i tempi e anche i modi. È mutato infatti il mio modo di pormi di fronte ai miei ideali: se all’inizio erano solo miei e facevo fatica a farli passare perché pretendevo consciamente o inconsciamente che la popolazione, la gente, le persone dovessero entrare nei miei schemi, pian piano ho capito che dovevo entrare io nei loro prima di essere accolto ed essere propositivo.
C’è stato dunque un periodo di crisi, rispetto alle aspettative con cui sono arrivato, però è passato abbastanza bene. Anche perché il desiderio principale in ogni caso è stato (ed è ancora) condividere un pezzo di vita della gente. Così viene privilegiato al primo posto il rapporto con le persone: dal dialogo, dagli incontri si creano prospettive condivise.
Concretamente la mia vita si suddivide tra gli impegni a Bouar e quelli in una ventina di villaggi lontani fino a 150 km dal centro, dove mi reco per le diverse attività prettamente ecclesiali (incontri con i gruppi delle cappelle di villaggio, con i catechisti, etc…) e le altre di maggior impatto sociale come la scuola, lo sviluppo agricolo e la costruzione di case, scuole, chiese, strade, ponti.
Ho incominciato affrontando il problema dei bambini. Dico solo una cosa: nei villaggi di cui mi occupo fino al 2010 c’erano solo quattro scuole; in questo momento ce ne sono 20. Con la collaborazione con la popolazione dei villaggi, con la condivisione della preoccupazione per l’istruzione dei bambini, lentamente si è riusciti a mettere in funzione scuole con un totale di quasi 5000 alunni; anche se dire 5000 bambini nella nostra zona significa parlare ancora solo del 50% dei minori in età scolare, quindi il lavoro da fare è ancora tanto.
Accanto a questo primo impegno, nelle serate insieme al villaggio accanto al fuoco, bevendo il caffè, chiacchierando delle varie situazioni, ci siamo interrogati sul problema dell’agricoltura, ovvero sulla mancanza di sicurezza alimentare per cercare approcci nuovi al problema della povertà. Siamo in uno dei Paesi dei più poveri e fors’anche dei meno organizzati della Terra. Qui l’agricoltura è di stretta sussistenza. Il nostro progetto vuole tentare il passaggio verso un’agricoltura di mercato che permetta ai nuclei famigliari -­ oltre a nutrire e sopperire al fabbisogno familiare – anche di avere un avanzo da rivendere per ottenere un piccolo capitale da spendere per varie esigenze oltre la pura sussistenza.
Il nostro progetto prevede la formazione di associazioni di contadini, la distribuzione sotto forma di microcredito di sementi, l’assistenza tecnica nella fase della lavorazione e due momenti di commercializzazione: il primo è la fiera annuale agricola, nella quale tutte le associazioni hanno la possibilità di recarsi a Bouar a vendere i propri prodotti; il secondo è la creazione di una struttura, affidata a un gruppo di donne, di acquisto dei prodotti agricoli delle associazioni e rivendita sul mercato locale. Si tratta di due sbocchi che danno un incentivo alle associazioni e alle famiglie per produrre di più, perché sanno che il raccolto sicuramente sarà rivenduto.
Infatti la cosa ha preso piede, perché rispondeva a un’esigenza reale e forniva anche una risposta. Il progetto si è allargato, adesso raggiunge tutta la regione Nana Namberé attorno a Bouar. Oggi abbiamo a nostro carico 130 associazioni contadine, supportate attraverso il microcredito e grazie a un gruppo di una decina di persone, e abbiamo già organizzato sei edizioni di Fiere agricole regionali.
Oggi stiamo uscendo timidamente e lentamente da un periodo di due anni e mezzo di guerra civile e questa circostanza ha convogliato sul Centrafrica anche un certo afflusso di energie internazionali, attraverso organismi non governativi con cui si lavora sul territorio nei vari settori. Perciò abbiamo stimato utile creare una struttura di coordinamento, in modo da conoscere quello che si fa, scambiare le varie metodologie e i risultati, così da creare un’azione più ordinata e renderci conto dell’impatto delle varie iniziative che stiamo portando avanti.
Chiaramente i tempi sono lunghi, sono quelli africani… Lo sforzo e la fatica sono proprio quelli di entrare nei ritmi locali. Noi saremmo predisposti a correre, invece qui le abitudini, le mentalità sono piuttosto legate a una ripetizione di modelli culturali che continuamente si ripetono. Ci vuole tempo, ci vuole tanta formazione per far passare le persone da una mentalità culturalmente determinata al senso di urgenza che oggi viene richiesto. Un passaggio appunto lungo, difficile, paziente; ma quando si riesce a trasmettere la possibilità di avere prospettive più ampie, allora anche il contadino centrafricano si mette in cammino.
Infatti uno dei valori intorno a cui oggi s’incentrano i nostri progetti di sviluppo non è solo produrre di più, che già in se stesso richiede un cambiamento di mentalità, ma anche produrre in modo solidale. Gli scombussolamenti della guerra civile hanno creato un individualismo chiuso, una specie di diffidenza verso l’altro; mettersi a ricostruire un tessuto di fiducia reciproca, lasciarsi stimolare in modo positivo dal vicino, dalla persona che non è della mia stessa etnia o religione, lasciarsi interrogare, stimolare, accoglierlo, è già un grande cambiamento.
La popolazione centrafricana ha tante potenzialità, ma per tante ragioni fa fatica a trasformarle in progetti. È importante che ci sia qualcuno capace di far vedere un pezzetto oltre lo sguardo di chi vive qui. E nella misura in cui si entra in questa prospettiva, si può arrivare a risultati notevoli. Dei miglioramenti sono già stati fatti: in quest’ultimo anno – non soltanto per il nostro lavoro – tanta povertà, una concezione di vita basata soltanto sulla stretta sopravvivenza è stata in qualche modo superata, almeno nei grandi centri. Nei villaggi, nelle periferie, nelle campagne, nella savana abbiamo ancora parecchio da lavorare, ma i casi di malnutrizione sono diminuiti: è un buon segno.
La prospettiva dunque è continuare a guardare avanti e sfruttare le possibilità che si aprono dopo ogni azione, coinvolgendo le persone intorno a nuovi progetti e trovando poi i mezzi per realizzarli, naturalmente puntando sempre all’autosufficienza, alla presa in carico di se stessi, lottando contro la dipendenza che fa parte della mentalità lasciata purtroppo dalla cultura e dalle strutture coloniali.
Spero infatti che, nel momento in cui la mia missione qui finirà, qualcun altro la possa portare avanti dopo di me. Come betharramita, so che la forza di san Michele Garicoits è stata una capacità infinita di donazione, con piena disponibilità dell’anima, della mente, di tutto se stesso nel compimento della volontà di Dio; è un grande impegno e io mi sento betharramita proprio nello spendermi fino in fondo in Centrafrica. Con tutti i limiti e le povertà, mi sforzo di essere un piccolo segno di un amore e un’attrazione che ci sorpassa e tuttavia passa attraverso le mie azioni e le mie parole per raggiungere le persone con cui ho a che fare, aprendole un po’ di più alla fiducia e alla bellezza della vita.

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