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Padre Felet racconta 50 anni da prete

Sulla Nef di settembre appare la bella testimonianza di Pietro Felet, attuale Vicario di Terra Santa, che il 27 giugno ha festeggiato 50 anni di sacerdozio.

 

Dum omni modo Christus annuntietur”, che tradotto suona così “Purché in ogni maniera Cristo venga annunziato” (Fil 1,18). È stato il motto animatore del mio essere prete e vivere da prete, inserito in una chiesa missionaria, al servizio di uomini da amare ed andare loro incontro col cuore in mano e con l’altra mano tesa per aiutarli in ogni maniera. Se 50 anni fa questo era un ideale, ora ringrazio il Signore per quello che mi ha permesso di essere e di realizzare nonostante gli alti e bassi della vita. Il Signore mi ha preso per mano per condurmi là dove mi voleva. E mi ritrovo oggi e senza rimpianti, prete del Sacro Cuore di Gesù, inserito in una cultura diversa dalla mia, aperto alla dimensione missionaria, disposto ancora a servire sempre e dovunque.

 

L’immagine del Sacro Cuore troneggiava in casa; la devozione ai primi venerdì del mese mi era stata inculcata dalla famiglia; l’adorazione dell’Eucarestia era un momento atteso la domenica pomeriggio e in particolare durante il periodo delle quarant’ore (assicuravo il mio turno di un’ora e sostituivo il nonno quando questo era indisposto).
Ragazzino ed adolescente passavo di casa in casa per raccogliere le offerte da evolvere alle opere missionarie. Alunno del seminario diocesano, passavo le domeniche d’estate col parroco per visitare ammalati ed anziani. Tra una casa e l’altra mi insegnava i principi della vita pastorale: apertura all’altro, rispetto dell’altro, fedeltà alla preghiera e alla propria missione, l’amore per una povertà concreta senza mai lasciarsi abbagliare dalla modernità o status symbol. Il suo motto, e me lo ripeteva spesso, “siamo utili ma mai indispensabili”; ciò mi è rimasto dentro, e riappare nei momenti giusti, soprattutto quando sono tentato di essere qualcuno e che senza di te le cose non vanno avanti. Questi principi di vita sono stati di grande aiuto durante tutti i miei 50 anni di prete prima e di religioso poi.

 

La vocazione è nata con la chiamata del vescovo di Vittorio Veneto. Alla fine della messa celebrata in una fabbrica di cemento, il vescovo si rivolse a me e, a bruciapelo, mi disse: “Ti aspetto in seminario”. Non sapevo che cosa era un seminario, ma sapevo che quel giorno ricorreva la festa del Sacro Cuore, il 21 giugno 1957. A settembre entravo nel seminario diocesano, ma sentivo l’attrazione per le missioni. Ed ecco che nel 1962 partivo per la Terra Santa per continuare la preparazione al sacerdozio. I formatori che ho incontrato erano religiosi bétharramiti, preti del Sacro cuore di Gesù. Era la prima volta che incontravo una comunità religiosa. Più che una comunità, la vedevo come una famiglia religiosa, con persone diverse ma affiatate e fedeli: dei veri testimoni. A quei tempi parlare di sé e della propria famiglia era considerato una mancanza di modestia. Non conoscevo molto del passato dei miei formatori, ma li sentivo abitati da qualche cosa di nuovo: una profondità umana, religiosa e sacerdotale.
Tre dei miei formatori hanno cercato in tutti i modi di convincermi a scegliere la vita religiosa. Non sapevo che cosa fosse e che cosa volesse dire; li guardavo vivere nel loro quotidiano: pregavano insieme, si aiutavano a vicenda e sapevano vivere i momenti di svago insieme. Dopo l’ordinazione presbiterale ho vissuto in comunità con loro pur essendo al servizio della parrocchia di Beit Jala. P. Joseph Mirande mi ripeteva che la fedeltà al dovere di oggi era un atout per il mio impegno futuro. Dopo sette anni di resistenza ho ceduto alla “tentazione”. Poiché una tentazione non è mai un peccato, non mi sono mai pentito di aver risposto ‘eccomi’.

 

Siccome ero già prete, l’anno di noviziato ad Albavilla (1973-74) era stato un anno di pastorale, più che un anno dedicato all’approfondimento della spiritualità betharramita. Ma non è mai stato un anno perso ed inutile.
In previsione di ritornare a Beit Jala, ho iniziato lo studio per ottenere la licenza in Teologia morale presso l’Alfonsianum di Roma (1974-76). Sono stati anni duri ma belli. Anni in cui ero stato chiamato ad abbandonare una formazione casistica ricevuta in seminario e ad aprirmi a nuovi orizzonti: Gesù Cristo come modello di vita e la legge solo uno strumento, vedere l’altro non in maniera astratta ed impersonale ma sentirlo come compagno reale di viaggio, il Regno di Dio da costruire con passione, dedizione e con cuore e menti aperti.
Agli anni di insegnamento nel seminario patriarcale e all’università di Betlemme (1976-80) si sono succeduti anni dedicati alla pastorale parrocchiale diretta o di settore: come prete fidei donum a Kuwait (1981-84) e parroco di una comunità interrituale di circa 15000 cattolici, come ri-fondatore della parrocchia di Sant’Ilario in Milano 1986-89), come assistente per la pastorale presso l’Opera Romana Pellegrinaggi (1985.1989-1992). Ogni tappa ha avuto la sua caratteristica: alimentare la gioia di essere cristiani in un ambiente musulmano, ricostruire il senso di appartenenza alla comunità cristiana e parrocchiale, far gustare la Parola di Dio.

 

Preso dall’attività pastorale, mi è stato chiesto un altro salto di qualità: lasciare il campo di lavoro attuale per un servizio di ufficio. Mi chiedevo se questa proposta rientrava nel carisma betharramita e nelle priorità della congregazione. Il Superiore generale di allora mi disse: «Quando la Chiesa chiama, il vero bétharramita dice sempre “Eccomi”».
E dal 1992 mi trovo chiuso in ambienti di amministrazione, come addetto della Delegazione Apostolica di Gerusalemme per gli affari economici e lo sviluppo delle scuole cattoliche di Palestina, Israele, Giordania e Cipro (1992-2008), come segretario dell’Assemblea degli Ordinari cattolici di Terra Santa e della Conferenza episcopale latina nelle regioni arabe (dal 2008). Al di là delle pratiche burocratiche, della preparazione di due viaggi apostolici (Benedetto XVI nel 2009 e Papa Francesco nel 2014), di mantenere buone relazioni con la Santa Sede e il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE), la mia missione principale era e rimane sempre quella di creare unità tra gli Ordinari delle varie chiese ‘sui juris’ e di alimentare la fraternità tra i vescovi latini sparsi in 23 paesi del Medio-oriente e del Corno d’Africa.

Nel frattempo continuavo ad insegnare Teologia morale presso lo Studentato salesiano prima e poi presso lo Studio francescano. È stata un’esperienza entusiasmante e l’occasione per mantenermi in forma intellettualmente e spiritualmente. Non bastando, il Patriarca ha insistito perché assumessi la responsabilità dell’ufficio di Maestro delle cerimonie. Anche questa è stata una grazia. Avevo capito che non si trattava tanto di essere ligio alle rubriche liturgiche quanto di mantenere un’atmosfera di fede: pregare e far pregare. Il decoro e i movimento dovevano esprimere armonia e bellezza.
Tutto questo l’ho vissuto in quanto religioso del Sacro Cuore di Gesù di Bétharram: “idoneus, expeditus, expositus”. L’Eccomi richiedeva preparazione, prontezza e coraggio. Ciò mi ha aiutato quando mi è stato chiesto di preparare la prima bozza della Regola di Vita aggiornata, di assumere la responsabilità di formatore e di superiore della comunità di Betlemme per 10 anni e infine di Consigliere provinciale e di Vicario regionale per la Terra Santa per altri 18 anni.

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