È bastato un clic sul web per farlo volare in missione. La storia di Shoda Kenichi, il volontario alto e magro sempre con in testa un cappellino alla pescatora che dal Giappone ogni anno parte per l’Holy Family Catholic Centre nel nord della Thailandia, comincia in modo piuttosto singolare e colpisce chi viene in contatto con lui, come successo a Giovanni Parolari di AMICI Betharram Onlus e più recentemente a Beatrice, la giovane italiana appena rientrata dalle missioni betharramite thailandesi che ne ha riportato la testimonianza .
Tornato al Centro tra luglio e agosto, Shoda ha raccontato: «Vivo in Giappone, precisamente a Saitama nell’omonima prefettura a nord di Tokyo. Ho sempre lavorato in orfanotrofio fino a 5 anni fa quando ho cominciato a insegnare giapponese alle scuole elementari. Della missione Holy Family Catholic Centre sono venuto a conoscenza un po’ per caso: vedendo un filmato su Youtube realizzato dalla regista Yunko Miura che ha visitato la missione, sono rimasto molto colpito e ho cercato informazioni. Alla fine ho trovato il contatto di padre Alberto Pensa e a lui ho chiesto se era possibile visitare il Centro per un breve periodo. Nel 2014 ho messo piede per la prima volta alla missione e appena arrivato mi sono ritrovato anche io in quelle immagini che avevo visto: era tutto vero, anche io mi trovavo in mezzo a tutti quei bambini! Da quel primo viaggio nel corso di questi anni sono tornato altre tre volte ed è sempre un piacere per me ritrovare amici grandi e piccoli. Avendo lavorato per tanti anni in un orfanotrofio a contatto coi bambini, anche se con alle spalle storie non belle, mi è venuto quasi spontaneo trovarmi a mio agio qui, in questa grande famiglia: stare a contatto con i piccoli è fonte di gioia e felicità, un dono. Fin da subito ho anche seguito i missionari nelle loro visite nei villaggi delle montagne più vicine al Centro: in questi villaggi dove non arriva corrente elettrica né acqua corrente, vivono tante persone povere e alcuni ragazzi non vanno a scuola. Ho subito pensato al mio paese d’origine, dove una cosa del genere è impensabile… La constatazione di questa realtà mi ha aperto gli occhi su un nuovo mondo e mi ha fatto riflettere». Shoda ha voluto poi rivolgere un pensiero a chi lo ospita in ogni sua visita: «Quando torno a casa, ripenso spesso alla gente del Centro: cerco sempre di mettere da parte qualche novità da portare a bambini e ragazzi durante le mie successive visite alla missione; penso ai missionari che mi hanno accolto come uno di famiglia, aprendomi fin dal primo giorno le porte di questo luogo speciale, a cominciare dai padri Alberto e Paolo Subancha [ora a Payao, ndr] e a padre John Chan e padre Peeter. Devo ringraziare anche Noy, Jim, Tutu e tutto lo staff con cui ho condiviso bei momenti e che fanno moltissimo per i ragazzi ogni giorno». Prima di arrivare a Ban Pong questo luglio, Shoda ha trascorso diversi mesi a Lampang (nel nord del Paese, a circa 4 ore di macchina dal Centro): «Quest’anno prima di arrivare qui ho insegnato giapponese presso la Lampang Kanlayanee School: è stata la prima volta in cui ho fatto da maestro in un paese straniero… è stata una tappa fondamentale, magari l’inizio di nuove prospettive».