Il fotografo Vittore Buzzi riflette su quanto visto in Africa, anche grazie al reportage concluso da poco presso le missioni betarramite in Repubblica Centrafricana. Di sotto trovate una selezione dei suoi scatti.
Negli ultimi 6 mesi ho passato 2 mesi in Africa. Penso di aver ampliamente sorpassato i due anni, sommando tutti i miei viaggi, ma sono sempre vittima del mal d’Africa. Non è qualcosa di indefinito che m’inumidisce gli occhi come una lady di inizio Novecento, il mio malessere è legato alla società europea.
Una premessa è doverosa: il bianco in Africa, se è un uomo, ha come una super pelle. Qualsiasi africano vi parlerà o vi darà un chance; in qualsiasi ospedale vi prenderanno subito in carico e vi faranno passare davanti a donne e bambini: non è giusto ma è così e sarebbe stupido non ammetterlo…
Ogni volta che parto è come se tornassi indietro alle radici dell’uomo, alle radici della solidarietà.
Anche nei contesti più duri, non appena scendo in strada o entro nelle case, si instaurano dei rapporti umani… Così eccomi a parlare con il responsabile della comunicazione del presidente del Benin, entrare nei quartieri disastrati di Bouar, varcare le porte delle sale operatorie e delle capanne… Parlare con i capi villaggio con i malati, tenere fermo un uomo che piange mentre suor Rita gli disinfetta le piaghe che gli arrivano all’osso…
Raramente ho soldi in tasca, ho solo il mio cuore, la mia umanità ferita e un’apertura, questa sì che non è riscontrabile in molti.
Non appena scendo dall’aereo il mondo consumistico e occidentale scompare. Come una sospensione, tutto perde significato, si amplia invece la mia rete di relazioni. Non mi serve più parlare, le persone mi aspettano, come se portassi un messaggio di speranza e di solidarietà. È esattamente il contrario, sono le persone che la danno a me, nonostante tutto, nonostante le storture, i sotterfugi, le piccole paure, le bugie… Tutto in Africa avviene, spesso alla luce del sole…
Poi la mia vicinanza con persone che sono animante dalla fede (quella vera con al centro l’uomo e le sue necessità non gli apparati burocratici) mi fa tremare fino alle ossa.
Quando ritorno in Europa, tutte le nostre sovrastrutture, la distanza che ci separa, il consumo, l’egoismo, la mancanza di comprensione di quello che abbiamo, mi intristisce e un’ombra si allunga piano su di me. No, non è un mal d’Africa: è il mal d’Europa. O meglio è una mala Europa quella che mi accoglie, lontano dalla solidarietà, intenta a tirare su barriere (inutile e dannose), a proteggere i suoi privilegi e a rendere sempre più schiavi i suoi cittadini.
Il cambiamento deve avvenire dentro di noi, aiutando chi ci sta vicino a capire ad accettare.