Sono citati anche i padri betharramiti nel nuovo libro di Vito Mancuso intitolato “La mente innamorata”, in uscita per Garzanti, di cui mercoledì il quotidiano La Stampa riportava un’anticipazione. In un passaggio del saggio – in libreria dal 24 marzo – lo scrittore teologo racconta il suo primo incontro con la Bibbia, negli anni dell’adolescenza. Un incontro cominciato proprio grazie alla verve di un padre betharramita, Davide Villa. «Era il 1978, eravamo nel vortice dei cosiddetti anni di piombo e la violenza si respirava per le strade, non solo nella cittadina nei pressi di Milano dov’ era il mio liceo, ma anche nel piccolo paese della bianca Brianza in cui ero nato e ora vivevo la mia adolescenza, travagliata né più né meno come tutte le adolescenze, quando si è costantemente infelici di quello che si è, ma non si sa ancora che cosa si vorrebbe diventare. In parrocchia erano giunti alcuni predicatori d’eccezione, padri Betharramiti, ricordo che si chiamavano proprio così, e una predica più intensa delle altre, tenuta da un sacerdote che si chiamava Davide, ricordo bene anche questo, aveva prodotto su di me una forte impressione, come una specie di calore, di fervore, nella mente. Quella sera quindi, nell’atmosfera un po’ diversa dell’autunno, provai un intenso desiderio di raccoglimento e di solitudine. Presi la Bibbia, che era appena entrata in casa grazie a mia madre che l’aveva acquistata qualche giorno prima da due suore che avevano suonato al campanello (a quei tempi succedeva anche questo), e mi chiusi nella camera dei miei genitori andando a sedermi nella poltrona accanto alla finestra. Era la prima volta che mi trovavo a tu per tu con la Bibbia. (….) Aprii a caso la Bibbia e capitai tra le pagine del libro intitolato Sapienza (…). Il bisogno di senso che mi aveva condotto nell’angolo più remoto della casa trovava riscontro in quelle parole e la sensazione di fervore suscitata dalla predica in parrocchia mi si rinnovava nella mente. Iniziavo a sentire che c’era un modo più gioioso di vivere, di vincere la sensazione di pesantezza che l’esistenza mi andava rivelando man mano che diventavo grande, e quindi che era possibile continuare a nutrire fiducia nella vita come avevo avuto istintivamente a partire dall’infanzia e come invece in quei giorni dell’adolescenza andavo perdendo. (…) Penso che fu allora che prese a muoversi in me il desiderio di prendere anch’io a compagna della mia vita la sapienza; anzi, la Sapienza, madre del bene, della giustizia, della bellezza. Sto parlando, beninteso, del sentimento vago di un ragazzo che non aveva ancora compiuto sedici anni, e che aveva ancora molta strada davanti a sé prima di capire la vera vocazione della sua vita, e quindi se stesso. Penso però che risalga a quella sera d’autunno «la scintilla», come direbbe Platone, che prese a vivere in me e che mi ha condotto, non senza qualche tortuosità, a consacrare l’esistenza allo studio della teologia e della filosofia al fine di servire la Sapienza».